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L’uomo senza colpa, di Ivan Gergolet (2022)

Dopo anni di revisioni e riscritture della sceneggiatura iniziale, è finalmente approdato nei cinema L’uomo senza colpa, primo lungometraggio di fiction del triestino Ivan Gergolet. Il film prova innanzitutto a offrire a una comunità, quella che gravita attorno ai cantieri navali di Monfalcone, quindi fino a Gorizia, a Trieste, alla vicina Slovenia, una possibile strada per superare la tragedia collettiva delle morti per amianto e poi la frustrazione per una giustizia non ottenuta.

Il trailer del film

Ma il film di Gergolet sa fare molto di più, forse perché le vicende dell’amianto sono paradigmatiche della perversione con cui lavoro e salute si intrecciano sempre, nel sistema di produzione capitalistico, per cui ciclicamente si ripetono fenomeni molto simili – pur se relativi a fattori e sostanze differenti. Forse d’altra parte, oggi dopo la pandemia siamo anche più capaci di capire davvero che cosa significhi non riuscire a respirare, aver bisogno di essere intubati, sapere che potrebbe toccare anche a noi. Ancora oggi sentire qualcuno tossire forte, di una tosse secca e violenta, è qualcosa che evoca un allarme che prima del virus era appena percepito.

Non è così per gli abitanti di Monfalcone, di Gorizia, di Trieste, delle vicine località slovene, abituati da anni a convivere amaramente col dolore delle perdite e con la spada di Damocle che pende su tutti quanti sono stati esposti alla polvere d’amianto riportata a casa sulle tute degli operai.

Ma la forza di questo film, oltre ai contenuti sociali che stanno alla sua origine, è nel senso di umanità che lo pervade, nella intensità emotiva che riesce a mettere sullo schermo attraverso il linguaggio e le forme del cinema: una storia forte e che avvince, degli interpreti che offrono interpretazioni di una forza come da anni non capitava di vedere in un film italiano, una fotografia che attraverso il realismo della grana e della illuminazione restituisce la verità anche corporale dei protagonisti, una colonna sonora che sa dare forza alle suggestioni del film, una regia che non a caso ha ottenuto il premio Ettore Scola al Bari International Film Festival del 2023.

La locandina del film

L’idea di Gergolet è semplice ed efficace. Ben vengano le inchieste, i documentari, gli approfondimenti giornalistici sulle centinaia di morti, sulle migliaia di esposti all’amianto, sulla vicenda giudiziaria che porterà ai processi contro Fincantieri, i suoi dirigenti e in ultima analisi contro l’azionista pubblico, lo Stato, che se hanno provato il nesso casuale tra esposizione all’amianto e una serie di patologie diffuse tra gli esposti alla sostanza, tuttavia non hanno portato ad alcuna condanna penale di responsabili.

Al regista però, che viene da un territorio in cui quasi ogni famiglia è stata esposta a questa tragedia, interessava di più qualcos’altro: che cosa succede alle persone, alle loro vite sconvolte dalla perdita dei propri cari e dalla mancanza di giustizia? Come riuscire a superare il dolore e andare avanti?

Non a caso tutta la vicenda degli anni di esposizione all’amianto e poi dei processi che seguiranno è riassunta in modo metaforico nella prima scena del film, che mette in scena brevemente un sogno della protagonista: alcune persone sono abbondantemente ricoperte di polvere sui vestiti, sulla pelle, fra i capelli, in un’aula di tribunale. Al banco degli imputati, elegante e sprezzante, un uomo si scrolla di dosso la polvere dalla giacca, una chiara allusione a quel che egli ha fatto con le accuse che gli sono state rivolte, letteralmente scrollandosele di dosso senza eccessiva fatica. La stessa parola “amianto” è pronunciata una sola volta in tutto il film.

“Tante volte avevo sentito gli sfoghi dei parenti delle vittime dell’amianto contro i dirigenti dei cantieri ritenuti responsabili, con cui dicevano che meritavano di morire, che se avessero potuto li avrebbero ammazzati – ha spiegato il regista nella prima proiezione a Trieste – E mi domandavo che cosa sarebbe successo se davvero li avessero incontrati”. È da questa idea che nasce la storia raccontata nel film: Angela, la vedova di un morto per amianto (Valentina Carnelutti), che non è riuscita a superare questa perdita e che vive la frustrazione di una giustizia negata per il marito e per i suoi amici, accetta di diventare la badante di Francesco, il datore di lavoro che ha causato la morte del marito (Branko Zavrsan), gravemente colpito da un ictus e parzialmente paralizzato.

Perché Angela accetta la proposta del figlio di Francesco di prendersi cura del padre? Vuole vendicarsi? Lei stessa non sa capire quali emozioni la stiano scuotendo, ma presto l’idea di punire l’uomo che ha causato lutti e tragedie, le cui azioni ancora minacciano le vite di quanti sono stati esposti, si fa sempre più forte dentro di lei. In un crescendo di tensione emotiva che lascia lo spettatore davvero col fiato sospeso, la dinamica di questo incontro-scontro tra i due protagonisti riesce a toccare tante corde diverse, alcune perfino inattese: Angela dispone del corpo malato di Francesco, lo cura e lo lava con sapienza, ma è latente la sua tentazione di approfittare della propria forza e fargli del male; Francesco d’altra parte non tarda a manifestare la sua consuetudine a una posizione di potere, toccando il corpo di Angela come forse era abituato a fare con le sue sottoposte. Eppure le loro vite sono così segnate dalla solitudine e dal dolore, che giungeranno a sfiorarsi perfino con desiderio, prima che la violenza cominci a manifestarsi sempre più esplicita nella lotta corpo a corpo in cui si sfidano sempre più apertamente.

Ci volevano due attori eccezionali, capaci oltretutto di trovare una sintonia davvero unica, per riuscire a giocare su tanti piani così diversi e in modo così credibile, peraltro senza quasi mai ricorrere alla parola. Valentina Carnelutti e Branko Zavrsan si rivelano due attori di statura non comune nel panorama del cinema italiano e la loro performance è tra le cose più belle viste negli ultimi anni. Gergolet li aveva scelti già anni prima di riuscire a fare il film, per poi dirigerli con intelligenza, dando a entrambi anche ulteriori e particolari sfide: il dialetto triestino per l’attrice milanese, il ruolo di un uomo semi-paralizzato e muto per l’attore sloveno, costretto a una performance fisica del tutto particolare.

Ad aiutare gli attori a dare il massimo, la scelta della location si rivela particolarmente felice. Costretti in un ambiente praticamente unico per gran parte del film, una ricca casa a picco sul mare sul litorale triestino piena di angoli nascosti da cui ci si può spiare e osservare, I due personaggi sembrano in realtà chiusi in un labirinto alla disperata ricerca di una via di uscita.

Eppure da questo scontro, nella finzione realizzata con questo film bellissimo, una via di uscita si profila e perfino una sorta di laico perdono, anche al di là della umana pietà, sembra alla fine possibile. Sebbene nella realtà quanto avviene nel finale del film non sia mai avvenuto, evocare un’ammissione di responsabilità, la testimonianza di un dolore condiviso, qualcosa che somiglia a delle scuse in una forma pubblica, regala ai protagonisti, agli spettatori e forse anche alle comunità colpite da tanto dolore, un modo possibile per elaborare e andare avanti, insieme.

ARTICOLO DI Bruno Ciccaglione

Fonte: re-movies

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