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Una conversazione con Valentina Carnelutti: “L’uomo senza colpa”, darsi la possibilità del perdono

L’uomo senza colpa di Ivan Gergolet è un film doloroso, il vero protagonista è il conflitto: circondata da un coro inconsolabile Angela (Valentina Carnelutti) deve prendersi cura del “bastardo” Francesco Gorian (Branko Završan), imprenditore che viene ricoverato proprio nell’ospedale di Trieste dove lavora lei. Angela ha perso già un marito operaio come l’amica Elena (Rossana Mortara) e nessuno può davvero dirsi al sicuro: l’amianto che ha impregnato le tute dei mariti sembra avere inquinato anche i pensieri. Un’opera prima complessa, che però gestisce il carico emotivo con onestà e senza retorica. Abbiamo conversato e abbracciato per voi l’attrice Valentina Carnelutti al Bif&st 2023.

Si pensa alla Tragedia greca…

È proprio come la Tragedia greca, sì, Antigone contro Creonte…

Ci pensavi durante il processo di costruzione del personaggio e del film?

Ho ricevuto una prima versione della sceneggiatura molti anni prima di girarlo quindi la storia è entrata nella mia testa come qualcosa che «chissà se si farà…», come un seme che è rimasto lì piantato mentre facevo altro. Sarei bugiarda se ti dicessi che ci ho lavorato per sette anni… ci sono state un po’ di telefonate con Ivan [Gergolet, n. d. r.], lui ha scritto diverse versioni della sceneggiatura. Abbiamo girato in un momento complicatissimo della mia vita: stavo traslocando, mi ero separata, ero stata male, mia madre non stava bene e stavo girando altri due film. Ho finito quelli e sono andata a Trieste, lì c’è stata una vera immersione nella storia, completa, ma senza una vera preparazione: abbiamo fatto un solo giorno di prove con Ivan, e con Branko solo una mattinata, in cui abbiamo provato la scena del tango. Una scena che compare solo per pochi secondi nel film, ma che è fondamentale. E averla provata e girata per prima è stato importante perché si è creato subito un rapporto di estrema fiducia con l’attore Branko Zavrsan senza il quale il mio personaggio non esisterebbe, gli devo gratitudine e riconoscenza per il lavoro che ha fatto: ha permesso a me di fare il mio al meglio. Incontrarci ballando, in un contesto pacifico, ha creato tra di noi una fiducia completa, a quel punto potevamo inscenare la guerra. Se avessimo cominciato a girare il film dalle scene in cui ci scontriamo, sarebbe stato un inferno, perché quando lavori su questo materiale hai bisogno di costruire un rapporto di collaborazione, prima di tutto, di fiducia completa e totale. Anche Ivan, del resto, mi ha fatto sentire amata sin dal primo momento. Mi ha dato la possibilità di provare, di sbagliare anche, di andare troppo in una direzione per poi sceglierne un’altra sapendo che tanto un passo indietro si può sempre fare: prova, rischia, riprova.

È un film rischioso, sì. Non soltanto perché mette in scena il dolore, ma perché propone la solitudine lacerante della protagonista.

Io ero molto sola in quel momento della mia vita e devo dirti la verità: questo mestiere è un lusso in certe occasioni, ma come tutta la vita è un lusso. Tutte le cose che ci capitano possono essere viste in un altro modo. Ti dico una scemenza. Mia figlia è stata male, in ospedale, quando aveva dodici anni, mi dissero che aveva pochi giorni di vita. Non era vero, è viva e vegeta, sta benissimo, è stupenda. In quei giorni di ospedale ho testimoniato dell’amore delle persone, della felicità di essere vivi come non mi era mai accaduto prima. Credimi, è la stessa cosa in un momento di grande difficoltà: [schiocca le dita, n.d.r.] ti arriva l’opportunità di fare un film, di avere un personaggio così pieno di dolore, ma soprattutto di dubbi: mi vendico, non mi vendico. Allora stiamo parlando della possibilità di perdonare. Stiamo parlando della pace, in un mondo che è in guerra continuamente, nelle cose più piccole, per la fila alla cassa del supermercato, fino alla Russia, ai migranti che muoiono nell’acqua e il mare ce lo abbiamo qui, davanti agli occhi io e te mentre parliamo. C’è la possibilità della pace e questo film parla di questa possibilità. È una tragedia, finisce nella morte, ma una morte che porta con sé il senso del perdono. È la giustizia: si può perdonare quando c’è il riconoscimento dell’errore. E questo riconoscimento non passa necessariamente per delle parole. Magari passa per dei gesti.

E in effetti in questo film si parla poco, ma si pensa e si agisce tanto.

Sì. Per esempio, il desiderio di Angela: come fa lei a desiderare il suo nemico? Il mio compagno mi diceva ieri: «questo non lo capisco». Ma la solitudine ti fa amare… anche un ragno che ti si arrampica sulla gamba ti sembra una carezza.

I nemici sono solo degli amori sconosciuti, prendo in prestito una battuta dalla tragedia Pilade di Pasolini.

Certo, ma è la conoscenza. Appena tu conosci qualcuno lo ami di più. Nella guerra la colpa è condivisa e se non c’è uno che si prende la responsabilità, e la pena, e lo strazio, e il dolore di perdonare e di dire: «Basta, basta, io non la faccio questa guerra». Angela potrebbe uccidere Gorian dalla prima inquadratura in cui lo vede. Però sceglie di conoscerlo. «Come ti fai a dormir la notte?»: basterebbe mettergli una mano sulla bocca per ucciderlo. Invece lei gli parla.

Ecco, la lingua: Angela parla in triestino.

Sì. Stavo girando Margini [Niccolò Falsetti, 2022, n.d. r.]. Mi chiama Ivan, ero sull’altro set: «Sai, ho pensato che lo facciamo in triestino. Te sa parlar triestin?». Eh, no: inglese, francese, portoghese, spagnolo, toscano, milanese, napoletano… ma triestino no! [ride n.d.r.]. Allora gli ho chiesto di registrarmi le prime battute e ho chiesto alla produzione: «Fatemi prendere il treno, così in quattro ore tengo tutto acceso, studio e invece di fare un’ora di volo, posso concentrarmi nel viaggio». Poi sono arrivata lì, una troupe adorabile, non appena avevo un minuto di pausa chiedevo a tutti: «Come si dice questa cosa?». Ho orecchio, è una fortuna, parlo tantissime lingue e canto… però è andata effettivamente così: come quando ti buttano in acqua e ti dicono: «Adesso nuota!».

A proposito di questa scena del ballo: è la scena chiave del film. Potrebbe essere un sogno, un ricordo, un’immaginazione…

Sì, una proiezione. Sai, io adesso ti abbraccio così [mi abbraccia, n.d.r.]. Penso a mia figlia. Apro gli occhi e sei tu. È questo: hai un contatto, ma è la proiezione di una solitudine. Perché potresti immaginarti con chiunque e, invece lei si immagina il suo antagonista, il nemico. Per me è questo. E guarda, dietro di te c’è proprio uno striscione sugli scogli, lo noto solo ora: c’è scritto Abbracciami.

È in un momento del film che abbatte una serie di pregiudizi nello spettatore, perché porta altrove: è un desiderio.

Sì, è così. Ivan è stato bravo perché non tutti erano convinti di questa scena. Invece spariglia tutto: non è logico, è un film a mosaico che si aggiunge a un altro pezzetto… ma la figura intera non ce l’hai mai del tutto, nemmeno nella vita. Ma perché se discuti con il tuo compagno di qualcosa, non stai sempre lì a tornare su cose che vi siete già detti? Il film è così: è la complessità. Allora o si sceglie di non raccontare la complessità al cinema, è una scelta, oppure non bisogna essere superficiali. Questo film per me è un invito a rimanere aperti alla possibilità del cambiamento. È vero, Gorian è colpevole. Ma ci sono altre colpe prima della sua e se non fosse stato lui a occupare quel luogo lo avrebbe occupato qualcun altro. Come per noi: ci dicono di non comprare le bottigliette di plastica. Benissimo, io lo faccio, sono anche un po’ ossessiva su questo, non compro la plastica: ma vogliamo smettere di produrla? Vogliamo fare in modo che tutti abbiano l’acqua gratis? Vogliamo occuparci dell’inquinamento delle acque?

A proposito del perdono: i giovani sembrano fare più fatica nel film a mettere in ordine tra le varie colpe, però sembrano riuscirci.

A diciotto, vent’anni si può essere più moralisti che a quaranta o cinquanta, ci si confronta per la prima volta con certi temi e si tende a vedere le cose bianche o nere, credo che la capacità di cogliere le sfumature etiche aumenti con il tempo e l’esperienza. Ma penso che ci sia una generazione nuova di diciassettenni, ventenni aperta, libera, che si interroga e ha un senso della realtà e se non perdonano, forse hanno ragione: non perdonare quello che la mia generazione sta facendo al pianeta è giusto. Perché è la mia generazione a essere in errore: il pianeta sta finendo, non conta nient’altro. La pace e il pianeta. Non contano i soldi, non conta la ricchezza, non conta la gloria. Che te ne fai della gloria, di una foto, dell’ultimo modello di telefono quando hai tutti i tuoi amici più cari morti perché si sono ammalati… ho fiducia nello sguardo della nuova generazione, anche per le questioni di genere. Ho cinquant’anni e vedo nei miei coetanei questa smania di rimanere attaccati al proprio piccolo potere, questa difficoltà ad ascoltare, specie in quelli che non sono rimasti in in contatto con le generazioni successive. Ma pensa anche a quello che succede nei Festival: quanto spreco, la moda, i vestiti, costosissimi usati una volta soltanto. Questo top che indosso viene da un usato che si chiama Bivio, questi pantaloni sono vecchi, me li ha regalati un’amica, questo golfino nero l’ho trovato a Cannes, abbandonato, dieci anni fa. Riciclare, barattare, condividere, si può vivere così.

ARTICOLO DI IRENE GIANESELLI FOTO IN COPERTINA DI NICOLE SERINO

Fonte: polytroponmagazine

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